la Scheda
Si può evitare la “tempesta perfetta” che minaccia i nostri figli?
Il futuro è imprevedibile, ma i fattori che lo determinano sono in parte già scritti, a cominciare dall’evoluzione demografica. L’umanità, oggi sette miliardi di persone, arriverà a otto nel 2025 e a nove dopo il 2040.
C’è una fondata previsione, espressa da diversi esperti, che entro il 2030 si determini una situazione difficilmente gestibile a causa dell’aumento dei consumi, delle diffuse povertà indotte anche dal riscaldamento del Pianeta, dalla debolezza delle risposte politiche a livello globale. Ne deriverà la cosiddetta “tempesta perfetta”, ancora più devastante di una guerra mondiale. Si può evitare? E’ questo il tema affrontato da Gianluca Comin e Donato Speroni nelle 200 pagine del volume 2030. La tempesta perfetta - Come sopravvivere alla Grande Crisi (Rizzoli, gennaio 2012), che spazia dalle problematiche demografiche a quelle ambientali, dalla politica all’economia.
Scheda del libro
Le previsioni sulla crisi globale non provengono più soltanto da ecologisti arrabbiati o da scienziati pensosi sul futuro dell’umanità. Le risorse naturali scarseggiano. Jeremy Grantham, autore di una newsletter molto seguita sulle prospettive dei mercati finanziari, ha scritto sulla rivista “Time”: “Quello che ci preoccupa veramente non è il picco del petrolio, ma il picco di tutto il resto”.
Comin e Speroni sulla base di un lavoro molto documentato lanciano l’allarme e avvertono che la tecnologia non basterà a salvarci, ma il loro non è un libro pessimista, perché registra anche i cambiamenti positivi che già stanno avvenendo nel mondo. Centinaia di migliaia di associazioni affrontano i temi dell’ ethical living e dei consumi sostenibili. Anche in mancanza di un accordo internazionale che sostituisca il Protocollo di Kyoto, molte nazioni, (dall’Olanda alla Cina, ma non l’Italia) compiono importanti sforzi di adaptation agli ormai inevitabili cambiamenti climatici. Centinaia di città, dalle smart cities alle transition towns, si mettono in rete per scambiarsi esperienze e tecnologie. Le imprese danno nuova sostanza alla “responsabilità sociale” anche attraverso accordi delle multinazionali con i loro storici nemici ambientalisti. E la governance mondiale, pur attraverso i faticosi meccanismi del G20 e dei grandi congressi internazionali, compie qualche significativo passo avanti.
Basterà tutto questo? Certamente no, bisogna accelerare il passo. Ma è possibile che la collaborazione tra organizzazioni internazionali, autorità politiche a tutti i livelli, cittadini, associazioni non profit e imprese consenta di affrontare il futuro. Non è certo un invito a volersi bene a tutti i costi. “I meccanismi del mercato, così come quelli della competizione politica, non possono essere soffocati da un finto unanimismo”, scrivono gli autori. “Ma è possibile darsi regole comuni di comportamento, meccanismi di trasparenza delle decisioni, sistemi di coinvolgimento dei cittadini, impensabili senza i mezzi tecnologici di oggi”. Le reti, la comunicazione diffusa, la possibilità di coinvolgere milioni di persone nelle decisioni sono uno strumento formidabile per affrontare il futuro.
Questo insieme di politiche top down e di comportamenti bottom up è il nocciolo di quello che Comin e Speroni chiamano “la filosofia new global”, una linea di comportamento che ha bisogno di tutti i protagonisti e ne valorizza l’apporto. “É essenziale, perché questa filosofia funzioni, che il mondo si liberi dalla paura e dalla diffidenza. Non si può affrontare il futuro pensando solo al peggio. Non si può diffidare sempre e comunque degli altri. In questa partita globale siamo tutti, ciascuno con i propri ruoli, sulla stessa barca. Cercare di spingere gli altri fuori bordo servirebbe solo a farla rovesciare”.
Scheda - comportamenti individuali e città
Cambiano i comportamenti. E la sfida più importante si gioca nelle città La speranza di far fronte alla crisi che minaccia il mondo nei prossimi vent’anni dipende in larga misura da un diffuso cambiamento dei comportamenti individuali. La gente ha capito che bisogna “fare qualcosa” per evitare la catastrofe, anche se sulle ricette effettivamente utili c’è molta confusione. Molti hanno già cambiato il loro stile di vita. Internet e i social network favoriscono la circolazione delle idee con circa 10 milioni di pagine (a fine 2011) su ethical living e sustainable living.
Nel volume di Gianluca Comin e Donato Speroni 2030. La tempesta perfetta - Come sopravvivere alla Grande Crisi (Rizzoli, gennaio 2012) si avverte però che “bisogna evitare i facili trionfalismi: i comportamenti che hanno davvero un impatto significativo sull’ambiente implicano anche un cambiamento radicale del modello di vita, con conseguenze economiche di grande rilievo; inoltre l’effettivo impatto ecologico di soluzioni che appaiono migliori è controverso; infine, i cambiamenti di comportamento dovrebbero essere accompagnati da scelte politiche che ne estendano e ne valorizzino l’efficacia e da strategie aziendali adeguate”.
Cambiare è urgente da noi più che mai. L’Italia “consuma” ogni anno 5 ettari per abitante e ha una capacità di sostentamento della sua popolazione limitata a 1,1 ettaro pro capite. Il saldo (-3,8(i)) è uguale a quello di Spagna e Grecia e peggiore di tutti i grandi Paesi europei: Germania (-3,2), Francia (-2), Regno Unito (-1,1). Nel complesso, tutti i Paesi industrializzati (e anche la Cina) superano il consumo “equilibrato”di 1,8 ettari per persona, in parte bilanciati dai Paesi più poveri, come Haiti, Afganistan e Bangladesh, dove il consumo di risorse è molto al disotto di un ettaro.
Nel suo rapporto 2010, la Banca Mondiale ci avverte che la situazione non sta migliorando. Un decennio dopo la fissazione di limiti internazionali alle emissioni di anidride carbonica, i Paesi più industrializzati hanno cominciato a tenere una contabilità precisa delle loro emissioni, ma i gas responsabili dell’effetto serra stanno ancora aumentando. Peggio, aumentano a un ritmo accelerato.
Aumenta, però, la pressione ambientalista. Come afferma il giornalista ed ecologista Paul Hawken; “ci sono nel mondo più di un milione, forse anche due, di organizzazioni che operano per la sostenibilità ecologica e la giustizia sociale. Questo movimento non corrisponde ai modelli tradizionali. È frammentato, non organizzato e orgogliosamente indipendente. Nessun manifesto o dottrina, nessuna autorità che eserciti un controllo. Prende forma in scuole, fattorie, giungle, villaggi, aziende, deserti, aree di pesca, slum, persino negli alberghi di lusso di New York”.
Insomma, ci troviamo di fronte a un movimento ancora confuso nelle priorità e negli obiettivi, ma certamente possente, forse senza precedenti nella storia dell’umanità per la quantità di persone che coinvolge. Nel loro libro, Comin e Speroni affermano che “valorizzare al meglio questa grande mobilitazione, tenerne conto sempre più nelle scelte politiche, costruire sinergie col mondo delle imprese e con l’economia di mercato è un passaggio indispensabile per affrontare la tempesta perfetta”.
Una umanità sempre più concentrata
É negli agglomerati urbani, dove ormai vive ormai la maggioranza della popolazione mondiale (secondo l’Onu il superamento città – campagna è avvenuto nel 2008), che si gioca la partita più importante sul cambiamento degli stili di vita. Esistono interessanti esperimenti di quartieri o intere città “sostenibili”, così come esistono città e paesi che si sono dati per obiettivo una gestione “intelligente” o una transizione verso la sostenibilità. L’elemento fondamentale di questi esperimenti è il coinvolgimento dei cittadini e la partecipazione alle decisioni.
L’abbandono delle campagne, scrivono Comin e Speroni, è sempre stato visto come un problema, soprattutto nei paesi in via di sviluppo: la famiglia che sopravvive in campagna con un’economia di sussistenza e la rete di solidarietà garantita dal villaggio o dal clan, in città è totalmente dipendente dall’esterno, sia per trovarsi un lavoro, sia per le sue necessità. La difesa e la preservazione della vita in campagna si scontra però con due dure realtà. Innanzitutto, il fascino della città. La città ha un’indiscutibile capacità di offrire a chiunque vi arrivi opportunità economiche maggiori, superiore mobilità sociale e un modello di vita più attraente e ricco di stimoli. Benefici che è difficile estendere a tutta la rete rurale. Le città sono state quasi sempre il motore della crescita economica, non solo perché in esse si concentrano molti dei tradizionali fattori della produzione, ma anche e soprattutto per la loro capacità di catalizzare la creatività delle persone. Si tratta di un fenomeno che si è accentuato negli ultimi decenni.
In secondo luogo, sono i numeri stessi a rendere più difficile la vita nei villaggi, soprattutto nei periodi di difficoltà economiche. Se la popolazione aumenta e magari le risorse agricole s’impoveriscono, in città si può sperare comunque di sopravvivere, nei villaggi diventa impossibile. Le reti di solidarietà tipiche del mondo rurale, in altre parole, non sono estendibili all’infinito, e non sono dunque capaci di affrontare l’aumento della popolazione. Con il tempo, invece, le città hanno saputo dotarsi di forme proprie e più efficaci di tutela sociale. Da un alto i grandi sistemi di welfare incentrati sul ruolo dei governi – gli ospedali, le case popolari, i sussidi di disoccupazione – dall’altra le reti alternative, costituite dalle unioni tra le persone: corporazioni, leghe del mutuo soccorso, sindacati, associazioni. La società civile, insomma, che nella città trova i suoi centri di aggregazione.
L’inarrestabile tendenza verso l’urbanizzazione non significa però che la gente vada a vivere per forza nelle bidonville delle megalopoli. Anche nei prossimi anni, le città più piccole, con meno di 500.000 abitanti, assorbiranno circa la metà della crescita urbana. E non è detto che le megalopoli siano la forma urbana del futuro. Afferma l’Unfpa: «Attualmente molte delle città più grandi del mondo – come Buenos Aires, Calcutta, Città del Messico, San Paolo e Seul, vedono più esodi che ingressi e poche hanno raggiunto le catastrofiche dimensioni previste negli anni ’70 ».
Negli Stati Uniti, nonostante l’iperaffollamento (250 dei 314 milioni di americani vivono in appena il 3 per cento della superficie Usa), le megalopoli non solo producono benessere e migliorano l’ ambiente ma sono anche i luoghi della salute e della felicità. A New York, seppure tra congestione e inquinamento, si vive mediamente più a lungo che in qualunque altra parte degli Stati Uniti, e lo stesso vale per le città dei paesi in via di sviluppo. Già oggi, scrive l’economista urbano Edward Glaeser «persino le città peggiori del mondo come Kinshasha, Calcutta o Lagos, offrono benefici sorprendenti alla gente che vi affluisce, con condizioni di salute migliori e più occasioni di lavoro rispetto alle aree rurali che le circondano».
Può sembrare strano, ma il modello più adatto per vincere la sfida èsembra essere quello della città iperconcentrata, dove la gente si affolla nei grattacieli. Certo, ci sono da risolvere problemi di congestione, sicurezza e traffico, ma il modello intensivo è molto più sostenibile del classico modello suburbano all’americana, che vede le città estendersi su grandi superfici, con villette in mezzo al verde. I costi energetici del suburban living sono molto più elevati, e gli ambientalisti dovrebbero quindi evitare le battaglie contro la concentrazione urbana.
Le caratteristiche fondamentali delle eco-città possono essere riassunte così: dimensioni relativamente contenute (le città sono costruite in altezza piuttosto che sparse in larghezza), grande attenzione al disegno urbanistico per ridurre i consumi di acqua ed energia, massimo impiego di fonti rinnovabili, forti incentivi a usare mezzi pubblici invece dell’automobile per gli spostamenti urbani. E ancora: tecniche di costruzioni a risparmio energetico, presenza di reti intelligenti, capaci grazie alla tecnologia di gestire in maniera sostenibile la circolazione dell’energia, delle informazioni e delle persone; sistemi di mobilità a basso impatto – come l’auto elettrica; ciclo dei rifiuti che tende al reimpiego totale.
(i) Come spesso accade nelle tabelle statistiche, i risultati non coincidono esattamente con gli addendi a causa degli arrotondamenti.
Scheda - la comunicazione, fattore critico
Le sfide che i governi del mondo hanno di fronte nei prossimi vent’anni sono enormi. Per farlo saranno importanti i progressi della tecnologia e le scelte della politica. Ma sarà impossibile fronteggiare “la tempesta perfetta” senza una profonda ridiscussione dei meccanismi di informazione e di creazione del consenso dei cittadini.
È questo uno dei temi affrontati da Gianluca Comin e Donato Speroni nelle 200 pagine del volume 2030. La tempesta perfetta – Come sopravvivere alla Grande Crisi (Rizzoli, gennaio 2012), che descrive l’intreccio dei fattori critici – clima, energia, sovrappopolazione, mancanza d’acqua – che si manifesterà nel 2030 mettendo a dura prova la nostra civiltà.
Nell’affrontare questa crisi, secondo gli autori, la comunicazione sarà uno strumento essenziale, in grado di costruire la fiducia e di compattare i cittadini attorno alle scelte difficili ma necessarie che ci attendono.
Il progresso tecnologico ha portato a un’evoluzione rapidissima e per certi versi inattesa del mondo della comunicazione: multicanalità, piattaforme alternative, linguaggi inediti hanno reso il consumo e la produzione di informazioni sempre più sofisticati e al contempo più accessibili ed efficaci.
Dalla guerra del Golfo del 1990, la prima guerra interamente televisiva, passando per l’11 settembre 2001, in cui i filmati amatoriali del crollo delle torri gemelle si sostituirono alle tv ufficiali, per arrivare alla primavera araba e alle proteste degli indignados, alimentate dai nuovi social media, abbiamo in pochi anni assistito al ribaltamento del modo di fare informazione.
Siamo entrati in un modello più orizzontale e partecipativo, in cui tutti possono produrre notizie e ciascuno è una cassa di risonanza per la circolazione delle informazioni. Un modello in cui imprese, istituzioni pubbliche, organizzazioni, attori sociali, gruppi e movimenti, singoli individui sono tutti interconnessi, interdipendenti, e ciascuno è potenzialmente un protagonista della comunicazione. Proprio questo modello ha iniziato a mettere in crisi non solo l’informazione tradizionale, ma anche la rappresentanza politica, sindacale, di categoria.
Le parole d’ordine per rispondere a questa crisi sono, secondo gli autori di “2030 la tempesta perfetta”, trasparenza e accountability. Termine inglese, quest’ultimo, cui non rende merito la semplice traduzione italiana in “responsabilità”, e che implica anche capacità di dialogo, rendicontazione, attenzione alla comunità, affidabilità.
Sono proprio queste le caratteristiche richieste alla comunicazione, in tempi di tempesta globale, per permettere a cittadini, aziende e politici di fare le giuste scelte e di attuarle con tempismo e decisione.
Scheda - governance e misure del progresso
Il bisogno di politica globale
La politica globale non è tra le priorità dei governi, che abitualmente hanno una visione legata ai cicli elettorali a quattro o cinque anni, anche se alcuni dimostrano maggiore capacità di guardare al futuro: la Danimarca, per esempio, ha lanciato una “Energy Strategy 2050” che prevede il totale affrancamento dai combustibili fossili entro il 2050.
Eppure di politica globale abbiamo bisogno, perché le sfide sono mondiali e ci riguardano tutti. È questo uno dei temi affrontati da da Gianluca Comin e Donato Speroni nelle 200 pagine del volume 2030. La tempesta perfetta - Come sopravvivere alla Grande Crisi (Rizzoli, gennaio 2012), che spazia dalle problematiche demografiche a quelle ambientali, dalla politica all’economia.
Solo un governo mondiale potrebbe imporre comportamenti adeguati, ma è molto improbabile che si verifichi nei prossimi vent’anni, se non sarà innescato da una catastrofe planetaria certamente non auspicabile. La governance internazionale, nella “geometria variabile” configurata dai G20, dalle agenzie dell’Onu e da numerose organizzazioni regionali, muove comunque passi importanti, osservano Comin e Speroni sulla base di un ampio lavoro di documentazione.
Non è certo la soluzione ottimale, di fronte alla “tempesta perfetta” che sta per piombarci addosso, ma sbaglia chi crede che la governance non serva a niente. E le agenzie dell’Onu non sono solo dispendiose burocrazie: in questi cinquant’anni hanno fatto da levatrici a oltre 500 trattati internazionali, dai diritti umani all’antiterrorismo, dalla repressione del crimine al trattamento dei rifugiati, dal disarmo alle materie prime e al regime degli oceani.
Già oggi dunque la global governance spazia su campi innumerevoli, dagli scambi culturali alla lotta al terrorismo: basta aggirarsi nelle decine e decine di siti web delle agenzie dell’Onu e (che comunque sono solo una parte delle organizzazioni internazionali attualmente operanti) e nei loro sottositi tematici per comprendere la vastità della rete di patti e istituzioni che avvolge il mondo.[i] É una rete piena di smagliature, ma è anche una rete di speranza.
Il ruolo dell’Europa
Quale ruolo possiamo svolgere noi europei in un mondo che si polarizza su aree geografiche in grado di esprimere con molta più forza una propria volontà di potenza? Saremo davvero il vaso di coccio del mondo del 2030? Il sito “Future Timeline”, arriva a ipotizzare il collasso dell’Unione Europea tra il 2035 e il 2040, ma forse gli europei di fronte alle nuove sfide saranno capaci di una risposta politica comune, anche perché le istituzioni hanno una loro forza che alla lunga può prevalere. Giuliano Amato in una recente intervista ha spiegato che l’eurozona non è solo un’area di cooperazione rafforzata tra alcuni Paesi dell’Unione, ma è il nucleo fondante di un’Europa integrata. La crisi dei debiti sovrani ha dimostrato che l’Europa non può più fermarsi in mezzo al guado. Se l’euro sopravvive, necessariamente comporterà istituzioni più forti e politiche comuni che si estenderanno anche ai Paesi dell’Unione che finora non hanno adottato la moneta comune.
Gli europei saranno anche avvantaggiati dalla eccezionale posizione geostrategica del Vecchio continente. Questo è un aspetto che non siamo abituati a considerare, ma il ragionamento è sviluppato con chiarezza nel manuale dei guru di management Hermann Simon e Danilo Zatta: “da un punto di vista mondiale il ‘Regno di Mezzo’ non è la Cina, ma l’Europa occidentale”. In termini sia di fuso orario che di ore di viaggio, Roma (o Parigi) è più vicina a Singapore che a New York. É vero che i mercati funzionano 24 ore su 24, ma la gente ha anche bisogno di parlarsi di persona o quanto meno al telefono: dall’Europa, le “finestre” di orari quotidiani in cui gli uffici sono aperti anche negli Stati Uniti o in Estremo oriente sono certamente più ampie.
Comunque si evolvano in futuro le sue strutture politiche, insomma, l’Europa manterrà una centralità in tutti i processi di globalizzazione, sarà il cuore delle reti che potrebbero cambiare il mondo. Non basta per dirci soddisfatti, perché le conseguenze della debolezza politica europea sono quotidianamente sotto i nostri occhi, dalla crisi dei debiti sovrani, che forse si poteva evitare se l’Europa avesse avuto non solo una politica monetaria, ma anche una politica economica comune, all’incerta conduzione nelle crisi internazionali. É però un’opportunità che soprattutto i giovani non devono trascurare, per evitare che l’Europa finisca davvero come previsto dai futurologi di Timeline.
Di fronte alle politiche contrapposte delle altre grandi aree geografiche e ai nazionalismi di molti paesi in via di sviluppo, noi europei, scrivono gli autori di “2030 la tempesta perfetta”, per cultura e per posizioni geopolitiche, possiamo essere il cuore di un movimento di costruzione della fiducia reciproca. Di fronte agli opposti egoismi, sarebbe giusto che dall’Europa partisse l’impegno a costruire un modello di mondo sostenibile per un’umanità di 9 miliardi di persone. E l’Italia? Per storia, per cultura, per creatività, il nostro Paese potrebbe avere un grande ruolo, ma per svolgerlo sarebbe necessario guardare oltre le beghe e i problemi contingenti, esprimere una classe dirigente in grado di visione strategica.
La misura del progresso
Per definire nuove priorità non basta fare affermazioni di principio. É necessario che le priorità siano misurabili statisticamente e possano tradursi in obiettivi condivisi. La misura della produzione di ricchezza espressa dal Pil, Prodotto interno lordo, deve essere integrata con misure di benessere e di sostenibilità ambientale e sociale. Così come sta imparando a misurare i rischi per l’ecosistema, l’umanità deve anche imparare a misurare i rischi per gli equilibri sociali.
Gli indici statistici dunque, lungi dall’essere semplici armi retoriche da brandire nelle tribune politiche televisive, sono invece strumenti complessi, importanti per la natura stessa delle nostre democrazie. Le politiche del Ventunesimo secolo non devono porsi soltanto l’obiettivo di far crescere la ricchezza e quindi il benessere economico dei cittadini, ma anche la loro soddisfazione globale. Non è un concetto del tutto nuovo: il diritto dei cittadini a ricercare la felicità era già sancito nella Dichiarazione di indipendenza americana del 1776. È nuova, però, l’insistenza con cui il termine “felicità” è entrato nel vocabolario politico. Mass media e uomini di governo preferiscono parlare di happiness anziché di benessere. Persino il premier cinese Wen Jiabao ha annunciato al Congresso del partito comunista del marzo 2011 che la felicità dei cittadini è un obiettivo del buongoverno. E i cinesi non si sono limitati alle proclamazioni: da qualche anno in alcune province avevano introdotto un indice della felicità basato su sedici parametri e lo hanno utilizzato per decidere se promuovere i dirigenti locali del Partito.
Bastano i calcoli sulla sostenibilità nelle sue diverse declinazioni per dirci se siamo o no in grado di affrontare il futuro? Certamente no. Sarebbe come se volessimo misurare le prospettive di un’impresa soltanto dai suoi bilanci. Stato patrimoniale e conto economico ci diranno se quell’impresa sa proteggere la ricchezza affidatale dagli azionisti, se è in grado di produrre valore, ma nulla ci potranno dire sulle sfide del futuro, sulla evoluzione dei mercati in cui quella impresa dovrà operare.
La vera questione, scrivono Comin e Speroni, è dunque la seguente: è davvero possibile un modello mondiale di previsione sociale? É difficile – anche perché dobbiamo sapere che ci sono forze economiche, sociali e culturali all’opera per smontare l’idea della insostenibilità del sistema attuale – ma non impossibile. Servirebbe, sempre secondo il presidente dell’Istat Giovannini, un’operazione come l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) in grado di riunire permanentemente i migliori scienziati con il consenso dei governi, questa volta per discutere non solo di clima, ma di sostenibilità complessiva. Quest’approccio andrebbe poi replicato e utilizzato a livello nazionale, dove avvengono i cambiamenti politici effettivi. Servirebbe per i sistemi economici, sociali e ambientali qualcosa di simile a quello che è stato per l’economia il modello mondiale Link, elaborato nel 1969 dall’economista Lawrence Klein, e che ancora oggi attraverso la collaborazione delle istituzioni nazionali fornisce modelli collegati per quasi 80 Paesi. É attraverso un processo analogo che possiamo elaborare indicatori di rischio attendibili anche per la popolazione umana nel suo complesso.
Analogamente, lo Stockolm Memorandum dei premi Nobel parla di “un nuovo contratto tra scienza e società”. È necessario «lanciare una grande iniziativa di ricerca sulla sostenibilità globale del sistema Terra, in una dimensione paragonabile a quella dedicata ad aree come lo spazio, la difesa e la salute, per valorizzare tutte le risorse di creatività interdisciplinare disponibili in tutto il Globo».
Nota. Tutte le fonti citate in questa scheda sono dettagliate nel volume.
(i) Accessibili da www.unsystem.org
Scheda - tecnologia ed energia
Tecnologia ed energia: nonostante tutto, il mondo cambia lentamente
Un uso accorto delle tecnologie potrebbe consentire all’umanità di risolvere gran parte dei suoi problemi entro il 2050. Ma la grande prova avverrà attorno al 2030, cioè nel momento entro il quale i problemi globali che già si stanno manifestando verranno definitivamente al pettine: secondo diversi scienziati, potrebbero diventare una miscela esplosiva. Per quell’anno c’è chi prevede che i problemi innescati da demografia, migrazioni, economia, clima, energia, alimentazione, acqua, potrebbero combinarsi in una «tempesta perfetta» da compromettere l’equilibrio della nostra civiltà.
Si può evitare questa catastrofe? E’ questo il tema affrontato da Gianluca Comin e Donato Speroni nelle 200 pagine del volume 2030. La tempesta perfetta - Come sopravvivere alla Grande Crisi (Rizzoli, gennaio 2012), che spazia dalle problematiche demografiche a quelle ambientali, dalla politica all’economia.
Gli scenari dei prossimi quarant’anni esaminati dagli autori attraverso un’ampia documentazione presentano una incredibile schizofrenia. Da una parte chi immagina un mondo ormai vicino ma profondamente diverso, nel quale in sostanza la combinazione delle tecnologie Grin (genetica, robotica, informatica, nanotech) allungheranno la vita dell’uomo ben oltre i cento anni e saranno in grado di risolvere tutti i problemi di scarsità che ci angustiano. Dall’altra la doccia fredda di chi ci avverte che l’accelerazione tecnologica non è sufficiente per farci superare senza traumi la “Tempesta Perfetta” del 2030.
Intendiamoci: le tecnologie attuali e comportamenti più responsabili già potrebbero dare un contributo importante alla lotta contro il cambiamento di clima, ma questo non basterà a darci energia pulita, acqua, cibo nelle dimensioni necessarie al ritmo degli attuali consumi.
Da oggi al 2030 l’umanità consumerà sempre più energia, nonostante le misure di risparmio, a causa dell’impennata del fabbisogno dei Paesi emergenti. Non ci sarà carenza di fonti tradizionali e le fonti rinnovabili cresceranno lentamente. La diffidenza nei confronti del nucleare contribuirà a rallentare il cambiamento del mix energetico.
E in futuro? Secondo lo scenario più credibile prodotto dalla International energy agency, per mantenere il riscaldamento entro i due gradi dovremmo cominciare subito a smantellare impianti già in funzione, cosa altamente improbabile. È dunque realistico che si debba convivere nei prossimi decenni con un aumento non di due ma almeno di tre o quattro gradi.
Il minor ruolo del nucleare dopo l’incidente di Fukushima darà probabilmente impulso alla produzione di energia da fonti rinnovabili. Ma la conseguenza più significativa nel breve periodo sarà, più realisticamente, l’aumento del ricorso a carbone e gas naturale. Risultato: quasi un miliardo di tonnellate in più di CO2 immesso nell’atmosfera ogni anno.
Il vero problema, per l’energia come per la demografia, è che i cambiamenti avvengono lentamente. Infatti per le fonti tradizionali non ci saranno cambiamenti clamorosi: secondo le previsioni della Iea carbone, petrolio e gas naturale, che da quasi vent’anni soddisfano circa l’80 per cento del fabbisogno dell’umanità (carbone e gas sono addirittura cresciuti negli ultimi vent’anni), caleranno al 75 per cento secondo lo scenario più probabile della Iea.
É davvero possibile che le cose vadano in questo modo? Non ci avevano detto che le fonti di energia tradizionali si stavano esaurendo? In realtà, spiegano Comin e Speroni, almeno da qui al 2050, non sarà così. Per fortuna (o purtroppo) le fonti fossili continuano a essere le più abbondanti e le meno costose. Non sarà la loro carenza a ridurne il consumo. Solo una scelta politica molto difficile, globale e impegnativa potrebbe alterare significativamente il quadro delle convenienze e “forzare” verso un’accelerazione delle rinnovabili.
C’è chi scommette che la killer application della seconda rivoluzione energetica sarà l’auto elettrica. Porterà l’era del petrolio al declino e avvierà una nuova era elettrica, nella quale il cittadino-consumatore sarà sempre più partecipe della transizione verso un consumo sostenibile.
Un’era in cui l’elettricità verrà da una generazione diffusa sul territorio, con pannelli solari efficienti, mini-impianti a biomasse e biogas, centrali solari ad accumulazione e poche selezionate centrali nucleari e a carbone con la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica. Grandi quantità di energia verranno dalle enormi fattorie del vento posizionate su piattaforme off shore lungo le coste del mare e da distese di pale nei ventosi deserti nord africani. Una moderna e innovativa maglia di rete ad alta e media tensione costituirà il sistema arterioso e venoso di un mercato non più diviso dalle frontiere degli Stati, ma connesso profondamente in un grande mercato globale.
Sono in corso ricerche e sperimentazioni concrete, finanziate dall’Unione europea, e condotte dalle migliori università del Pianeta con le più importanti società fornitrici di energia. Ma se è prevedibile che il punto di arrivo sarà più o meno quello appena descritto, come per altre questioni affrontate in questo libro la domanda decisiva a cui Comin e Speroni cercano di dare risposta è è: “Come si arriva al futuro senza che il presente ci schiacci?”.